Tiburzi, il brigante buono?
Molto è stato detto e scritto sul "Domenichino", come lo chiamavano alcuni per via della sua statura: molte storie sono state tramandate di padre in figlio e mescolate negli anni con quella epicità che ha trasformato l'uomo in leggenda. Cosa ha colpito così tanto il cuore dei maremmani da trasformare un brigante, un uomo più volte condannato per una lunga lista di crimini, in un eroe?
Tutto ebbe inizio a Celere, paesino rurale arroccato su uno sperone di roccia in provincia di Viterbo ed è l'anno 1836. Qui il 28 maggio viene alla luce Domenico, da Nicola Tiburzi e Lucia Attili. Salvo forse l'infanzia, la vita del giovane Tiburzi è sempre a cavallo fra il romantico ed il grottesco: espedienti per cercare di tirare avanti e piccoli reati lo portano già a 16 anni ad essere ricercato per furto e ad essere assolto per la stessa imputazione poco tempo dopo. Il via vai dalle aule continua con imbarazzante puntualità e, a 27 anni, l'ennesimo arresto, questa volta per aggressione e ferimento, viene revocato non tanto per l'innocenza dell'imputato quanto per "desistenza della parte offesa".
Eppure le prime avventure (anche se sarebbe più giusto dire "disavventure") del Re di Lamone, come verrà anche ribattezzato, non sono che il preludio degli anni di macchia e brigantaggio a cui i suoi più gravi reati lo portarono.
Povertà, sangue e giustizia
Proprio gli avvenimenti del 1867 ne sono la prima vera testimonianza. Siamo nelle tenute del marchese Guglielmi, immense distese agricole che andavano dalla Tuscia alla Maremma. Un Tiburzi ancora giovane, in forze, sposato con Veronica Dell'Aia (da cui ebbe due figli), si ingegnava come tanti per trovare ogni giorno qualcosa per sfamare la propria famiglia. Mentre camminava tra i sentieri sconnessi pensando e rimuginando, un ultimo "a chi troppo e a chi nulla" deve averlo convinto a quella azione sprezzante che aveva meditato già la sera prima. Tirò fuori la falce che aveva portato con sé, tagliò dell'erba e ne fece una fascina. Stava rubando, stava infrangendo la legge, ma era un po' d'erba con cui sfamare le sue pecore, tutto qui.
Non doveva essere della stessa opinione il fattore e guardiano delle tenute, Angelo Del Bono, che sulla via del ritorno scorse Tiburzi con la sua refurtiva e lo raggiunse al galoppo.
«Dove te ne vai con quell'erba Domenichino?» per poi aggiungere «E' tua che la porti via?»
«Avete fatto la fame per anni, ed adesso vi accanite su di me perché qualcuno ve ne ha dato la facoltà» rispose Domenico.
Tirando fuori un taccuino sgualcito e scrivendo il nome del reo, il fattore confermò l'infrazione. «Sono dieci lire di multa». E dieci lire del 1867 sono una vera fortuna.
Parolacce, insulti e improperi fu quanto immaginiamo uscì dalla bocca di Tiburzi per sfogare la furia e lo sconforto che il gesto di Del Bono gli aveva montato dentro. Questo fu tutto, però. Domenico tornò calmo e prese la via di casa.
La notte fu però senza sonno, tormentata dai dubbi, dallo sconforto e dalla rabbia che ancora bruciava. All'indomani prese la doppietta che aveva appesa al muro, uscì di casa all'alba e si mise ad aspettare Del Bono dietro ad un cespuglio lungo la via che avrebbe percorso per la consueta ispezione della tenuta.
«Oggi si fa giustizia» disse al fattore col fucile spianato quando gli fu vicino. «Oggi Domenico Tiburzi è la giustizia».
«Che cosa vuoi ancora... non ti è bastata la lezione?» spaventato ma senza perdere il piglio Del Bono.
«Sono venuto per quelle du' pezze Sor Angelo... eccole». Domenico sparò al fattore a morte scaricandogli la doppietta addosso e lentamente si incamminò di nuovo verso casa.
Da omicida a brigante
Uccidere un uomo è facile, basta premere un grilletto. Convincersi a farlo è tutta un'altra storia. Certo, qualcuno fa meno fatica di altri, ed è evidentemente il caso di Tiburzi. A volte le spiegazioni sono molto più complicate, ed anche questo è il caso di Tiburzi.
Ricordiamo il quando e il dove: siamo nella seconda metà dell'800, di fronte all'unificazione d'Italia, a cavallo fra il Granducato di Toscana ed il Papato di Roma; siamo in mezzo a mille cambiamenti di leggi e poteri e non troppo distanti da quel novecento che cambierà radicalmente il volto della nostra civiltà.
Domenico Tiburzi è in mezzo alle acque torbide di questo mondo di confine. Vive la stessa tragedia di tanta povera gente schiacciata dai grandi proprietari terrieri, ricchi e potenti per un qualche diritto. Siamo in quella Maremma cantata da tanti in cui "l'uccello che ci va perde la penna" e "il giovin che ci va perde la dama".
Forse per questa voglia di tornare a galla unita ad un carattere già irrequieto, il nostrano Robin Hood diventa il simbolo maremmano del "rubare ai ricchi per dare ai poveri"; diventa il brigante nobile il cui senso di giustizia, diverso da quello di legge, lo porta ad infrangere il giovane divieto giunto con l'Unità d'Italia di raccogliere erbe dai campi, pescare in torrenti e fiumi, far legna e spigolare che fino a pochi anni prima aveva salvato dalla fame i contadini più poveri. E in effetti questo ci racconta lo stesso Paolo Benvenuti, regista pisano dello splendido film "Tiburzi" al cui protagonista fa dire con buon rigore storico e un pizzico di gusto epico: "Io, Domenico Tiburzi, difendo la giustizia anche contro la legge".
Amato dal popolo, armato dalla casta
Rapporti ambigui, tradimenti e volta faccia... la Maremma non è Sherwood e Tiburzi non è la trasposizione di Robin Hood. La realtà è un intricato intreccio di vicende che oggi più di allora, miscelate con la leggenda è complicato mettere in ordine. Quel che è certo è che nel loro regno fatto di macchia, grotte, rocche e casolari, i briganti si sono mossi per anni. Lo hanno fatto riscuotendo successo fra i contadini ed il popolo in genere forse proprio per ridare un senso a quelle zone d'ombra che le nuove leggi post-unificazione avevano portato con sé; lo hanno fatto però anche come mano armata, in modo più o meno cosciente, proprio dei latifondisti da cui i braccianti cercavano di garantire la propria dignitosa sopravvivenza.
Qui di speculazioni potrebbero nascerne in quantità: mero opportunismo o mancanza di un senso complessivo delle proprie azioni? Senso di una giustizia che il novello Stato italiano non riusciva a garantire o retaggi duri a cambiare agli albori di un era di repentina trasformazione? Probabilmente un mix esplosivo di tutte queste componenti è la condizione più vicina al vero, ciascuna in proporzioni diverse sia per Tiburzi che per gli altri briganti che si sollevarono in Maremma (e non solo) su questo finire di '800.
Cupa ombra sulla Storia, restano in ogni caso le similitudini con le vicende dell'Italia contemporanea, i suoi presunti o reali "delitti di Stato" e tutte le organizzazioni più o meno note che hanno segnato con il sangue il percorso di una nazione che via via ha cercato di cambiare il proprio volto.
Gli anni della macchia
Dopo l'omicidio del guardiano Del Bono, tra i silenzi dei testimoni spaventati da possibili ritorsioni, Tiburzi fu comunque arrestato e condannato a 18 anni da scontare presso il bagno penale di Corneto (Tarquinia).
La parentesi di carcere si chiuse però rapidamente e nel 1872, insieme a Domenico Annesi (detto "Innamorato") e Antonio Nati (conosciuto come Tortorella"), evase per darsi alla macchia del castrense. Proprio qui, fra boschi e alture poco più a sud dell'attuale maremma toscana, si consumarono i tanti "giochi di potere" e nacquero quelle amicizie che portarono Tiburzi dall'essere un semplice latitante a tenere le redini di una banda che in ventiquattro anni arrivò a far allarmare il governo dello stesso Giolitti.
Tiburzi resta in bilico tra cielo e inferno: alcune azioni di nobili intenti, altre meno, tante dai risvolti violenti, tutte in grado di aiutarci a dipingere un quadro di quel brigante che nonostante tutto fu amato ed acclamato dal popolo e che tuttora risulta difficile semplicemente ascrivere a "feccia".
Per quanto sempre di omicidi si parli, è di esempio a questo "codice" l'uccisione, nel 1889, di Luigi Bettinelli, reo di molestare le donne e, ancor prima, di Giuseppe Basili, estorsore ai danni dei mercanti. Uccidere però restava fin troppo facile: Vincenzo Pastorini (un membro della banda) fu vittima della doppietta di Tiburzi perché lo metteva sempre in ridicolo raccontando della sua fuga in mutande dalla grotta nella quale fu colpito Biscarini (il precedente capo della banda ucciso dai Carabinieri). Analoga sorte spettò a Raffaello Gabrielli, per non aver aiutato i briganti avvertendoli dell'imminente perlustrazione dei Carabinieri. E poi ci sono le taglie: sempre più ricche e per le quali sempre più persone erano disposte a lanciarsi dietro al brigante e la sua cricca.
Gli ultimi giorni
Domenico Tiburzi visse gli ultimi anni della sua vita braccato dalle forze dell'ordine giunte a centinaia dal governo centrale, diffidando dei tanti che lo avrebbero tradito per poche monete e con quell'energia che, un anno alla volta, svaniva. Fu così che la notte del 23 ottobre 1896 il "Re di Lamone" fu raggiunto dal suo destino; in una casa di campagna alle Forane (vicino Capalbio) dove aveva chiesto ospitalità insieme al suo luogotenente, Luciano Fioravanti.
Non sappiamo se fu suicidio oppure omicidio ma il suo destino aveva un nome, un cognome e un ruolo: capitano Michele Giacheri. Quel che si sa è che ci fu una sparatoria in cui Tiburzi venne colpito ad una gamba. Subito dopo, una versione lo vuole raggiunto da più colpi di pistola esplosi dai Carabinieri durante l'irruzione; un'altra lo vede darsi la morte piuttosto che arrendersi di fronte alla legge.
Il mistero della sepoltura
Il canto è di un anonimo maremmano e sembra ancora di sentirlo guardando l'ultima fotografia del brigante. Quel dagherrotipo sbiadito in cui un Tiburzi già morto è legato al tronco di un albero a sembrar vivo e vegeto, con tanto di doppietta stretta fra le dita, è un po' un trofeo, un po' un monito; e seppur già all'altro mondo, la figura incute timore.
Morto è l'intrepido forte leone.
E' morto il celebre re di Lamone
e il corpo esanime giacente e spento
poi dopo morto mette spavento.
Nel volto pallido barbuto e fiero
potevi scorgere il Cavaliero,
potevi scorgere che quel brigante
aveva nobile, civil sembiante.
Se questo genere di immagini era cosa comune all'epoca, la sepoltura delle spoglie del Domenichino è tuttora qualcosa di bizzarro: la versione più accreditata vede il parroco di Capalbio rifiutarsi di officiare il funerale di quello che a tutti gli effetti è un assassino e dunque un peccatore senza Dio. A questo rifiuto si oppone però quello dell'intera comunità capalbiese per la quale, la sepoltura in terra consacrata, è condizione obbligatoria per colui che per si è sacrificato per la loro causa.
La soluzione fu il compromesso. Una fossa senza targhe, croci o segni distintivi sul cancello d'ingresso; il corpo di Tiburzi sepolto in terra consacrata soltanto per metà: gli arti inferiori entro il cimitero, testa e torace (considerate sede dell'anima) fuori. Una tomba che alcuni speravano sprofondasse nell'oblio più completo e che invece resta quasi a far da centro a tutto il campo santo.
- Nessun commento trovato
Commenti